lunedì 22 novembre 2010

150 anni

Ogni mattina accompagno mia figlia alla scuola Fratelli Bandiera. Il mio impegno di amministratrice pubblica mi ha reso più attenta alla topografia della memoria: nomi delle scuole, delle strade, targhe sui muri delle città. Ogni tanto mi capita di rappresentare la Provincia di Roma alle commemorazioni – 8 settembre, via Fani, Porta Pia, la Storta, … – e pensare a quelle vite stroncate, immolate, a chi ha combattuto, ai perché, ai torti e alle ragioni, ai loro affetti, alle famiglie, all’intreccio tra le storie dei tanti e la Storia d’Italia.
Così ho raccontato a mia figlia perché la sua scuola si chiama Fratelli Bandiera e mi sono ricordata che proprio in quella scuola un pomeriggio presentai il libro di Laura Lombardo Radice e Chiara Ingrao Soltanto una vita e Pietro Ingrao, marito di Laura, raccontò della paura che avevano avuto alla fine degli anni trenta, giovanissimi, quando sembrava che il nazismo potesse vincere ovunque. Erano soltanto ragazzi e furono travolti dalla Storia, quella con la esse maiuscola. Persero cari amici e quella scelta li segnò per sempre. Nel libro veniva ripubblicato un articolo di Laura Lombardo Radice scritto per l’Unità (27 luglio 1952) “I fratelli Bandiera” che così si chiude: “Tutto finito, fallito. I Fratelli Bandiera: due volti risorgimentali che sappiamo sin da bimbi, un argomento di storia da studiare, forse il soggetto per un film. Ma Dante di Nanni, Eugenio Curiel, Giaime Pintor, le care ombre dei giovani eroi che ebbero ieri la nostra età, ci riconducono incontro, in modo affettuoso e commosso, a Emilio e Attilio Bandiera, ufficiali, Domenico Moro, Tommaso Verenucci, fucilati più di un secolo fa: che ebbero anch’essi i nostri anni.”  Ci riconducono incontro, scrive Laura Lombardo Radice. Capita così che i nodi della storia irrisolta di questo paese tornano; la sua democrazia, il debole suo spirito civico, la sua incompiuta religione civile, la sua fragile unità.
Mentre la politica fatica a dare un senso all’anniversario che stiamo per attraversare, i 150 anni dall’Unità, arriva nelle sale il film di Martone.
A dispetto di tante difficoltà (poche copie, nessuno sembra volere davvero questo centocinquantenario, neppure Rai cinema che produce il film, ma forse un po’ se ne vergogna), arriva dunque in sala Noi credevamo: un film, bello, importante, emozionante, ambizioso. Mario Martone e il cosceneggiatore Giancarlo De Cataldo rianimano questo compleanno italiano. Emozioni, passioni, vicende personali di uomini e donne come Cristina di Belgioioso (ebbene sì, c’erano anche le donne) che si intrecciano con la storia del paese. Del resto la storia in chiave di compromissione personale è la cifra della scrittura di Anna Banti (al secolo Lucia Lopresti), autrice del libro da cui il film è tratto (Valentino Cecchetti su L’Indice, n.10), che lavorò sulle memorie del nonno calabrese mazziniano.
Di Giancarlo De Cataldo è anche in libreria I Traditori (Einaudi, 2001), altro affresco risorgimentale e meridionale, altro racconto ricco d’incredibili figure femminili.
Pur temendo di piegare l’arte alla politica, di imbrigliare il valore artistico del film e del libro, che non sono saggi e non vogliono esserlo, non posso non dire che Martone e De Cataldo ci offrono un’interessante rilettura del Risorgimento. Sono autori di un’attualissima operazione politico-culturale. Per questo è così emozionante e si fa la fila per andare a cinema. Si parla dell’oggi, per capirlo e ricostruire il filo annodato che ci lega e ci fa “reincontrare” i tre giovani calabresi di cui il film segue le vicende, e ci emoziona il loro giovanile giuramento e affiliamento alla Giovine Italia.
L’unità è vista dal sud, ma non per rispondere banalmente al leghismo e ricordare l’annessione del sud, la ferita d’Aspromonte (c’era già stata Bronte). L’Italia è stata fatta male, come dice Cristina di Belgioioso, straordinaria figura, preoccupata che il popolo non capisca, non ci sia. L’Italia è stata fatta male, tradendo le speranza di chi la voleva unita, e non solo quelle del sud. Mazzini muore clandestino, Poerio si ritira a vita privata.
Nei Traditori, la Striga, splendido personaggio del libro di De Cataldo, “creatura delle foreste” così riflette: “Nel momento della vittoria si accumulano le tante minime disfatte individuali. E forse, la vittoria stessa non è che la risultante di tutte quelle sconfitte. Un’equazione irrisolta …”
Un’equazione irrisolta che arriva fino a noi, nell’immagine del cemento di una casa iniziata e mai finita sulla costa del sud, immagine di scheletro così familiare a noi meridionali, dove s’incontrano due generazioni di repubblicani.
Irrisolto è il rapporto con gli ideali di rinnovamento e cambiamento sociale che l’Italia avrebbe dovuto incarnare, quello tra la repubblica romana, il momento più alto dell’utopia democratica, con il voto alle donne e l’abolizione della pena di morte, e la Roma che diventa capitale sabauda dopo la breccia di Porta Pia. E pensare che ancora oggi la giunta capitolina si riunisce attorno al tavolo che fu di Saffi, Armellini e Mazzini, ma quanta distanza …
E’ bellissima la scena in cui uno sconfitto, Lo Cascio, uno dei protagonisti del film, va per un colloquio in parlamento. Nell’Aula che si mostra deserta Crispi (Luca Zingaretti) spiega perché proprio gli ex-repubblicani saranno i più convinti monarchici, Lo Cascio si aggira invece nel corridoio tra le cappellerie piene dei cilindri degli onorevoli. Quei cappelli maschili così tutti uguali, funerei ha scritto Roberto Escobar su il sole 24 ore del 21 novembre, mi hanno ricordato il corteo dei figli degli uomini colti, che ho sempre immaginato con la bombetta, che Virginia Wolf descrive in Le tre Ghinee, invitando le donne a non seguirlo. E’ un testo che il neofemminismo ha posto a fondamento dell’estraneità femminile a questa politica.
Mi sembra infine che nel film si parli anche di questo, dell’impegno e della politica, del rapporto tra idealità e cinismo, tra idealità e integralismo, del trasformismo delle classi dirigenti italiane, del crinale pericoloso tra realismo politico e trasformismo.
Ragionare oggi del Risorgimento è un’occasione per interrogarci sull’Italia e il disincanto degli italiani. Oggi, consumata la crisi della repubblica dei partiti nata dalla resistenza, torna quel nodo irrisolto del rapporto tra politica e popolo, tra questione democratica e questione sociale. Solo uno dei ragazzi mazziniani è figlio del popolo e il padre tenta di spiegargli che non può condividere gli ideali dei suoi compagni, figli dei padroni che rubano l’olio dei contadini. Alla fine quel popolo meridionale sarà davvero tradito, dando ragione al disincanto del padre.
Noi credevamo, come ogni imperfetto che si rispetti (Capitta, manifesto 8.9.2010), arriva fino a noi: fortemente unitario, ma senza retorica, lasciando aperte le domande su quale unità abbiamo avuto in eredità e come rinnovarla. Un modo per capire in che paese viviamo.

Cecilia D’Elia  dal sito di SEL Nazionale

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