martedì 10 gennaio 2012

Un’alternativa all’abrogazione dell’art. 18

Alfonso Gianni (SEL)
Eurostat e Istat ci hanno comunicato che gli ultimi dati sulla disoccupazione  in Europa e in Italia, che sono, al novembre 2011, pari a 10,3% e 8,6%. Quindi l’Italia sta meglio della media degli altri paesi europei? Solo apparentemente. Infatti se noi sommassimo all’elenco dei disoccupati  quei lavoratori che ancora non lo sono perché percepiscono il trattamento di cassa integrazione (che nel 2011 è stato erogato per l’equivalente di 953 milioni di ore) il dato della disoccupazione italiana balzerebbe immediatamente sopra l’11%. Questo e non altro sarebbe l’effetto immediato della cancellazione dell’articolo 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori, poiché renderebbe possibile il licenziamento per motivi economici ricadendo sulle spalle di tutti dei dipendenti delle aziende in crisi, che in questo periodo sono molte.

L’obiezione che viene fatta a questa semplice considerazione da parte dei sostenitori della manomissione dello statuto dei lavoratori riguarda l’eliminazione del dualismo tra insider e outsider, cioè fra chi è interno e chi è fuori dal rapporto di lavoro. Ma quale sarebbe il vantaggio per i precari o per quel numero sempre crescente (oltre 2,2 milioni) di giovani che non sono nello studio, né nel lavoro, né in corsi formativi ( i neet secondo l’acronimo inglese)? Nessuno, poiché le occasioni di lavoro non derivano dalla possibilità di sostituire i licenziati dal momento che la cessazione del loro rapporto di lavoro deriva da motivi economici che riguardano il cattivo stato dell’ impresa di provenienza che dunque continuerebbe ad essere d’ostacolo a nuove assunzioni. D’altro canto la minore rigidità del lavoro in uscita non è di per sé un incentivo a nuove assunzioni in una situazione di crisi recessiva. Anzi in generale si può osservare che l’incidenza del migliore funzionamento teorico dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro può pesare per percentuali sempre limitate nell’incremento dell’occupazione, essendo quest’ultimo essenzialmente legato alla creazione di nuovi luoghi di lavoro, quindi all’andamento dell’economia reale e materiale assai di più che alla legislazione che sovraintende il funzionamento del mercato del lavoro.
Soprattutto va sfatato un mito del tutto infondato. Il cosiddetto tasso di rigidità in uscita dal rapporto di lavoro non è affatto esagerato in Italia. Secondo i dati, i criteri valutativi applicati dall’Ocse, quel tasso (“strictness of employment protection for regular employment) è misurabile con un indice pari a 1.77, al di sotto della media europea: appena sopra alla Danimarca (1.63), comunemente presentata come campione di flessibilità e ben al di sotto non solo degli altri paesi del nord Europa (Germania in testa: 3.00), ma anche di molti paesi dell’est (come l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Polonia, rispettivamente 1.92, 3.05 e 2.06).
 Vale la pena soffermarsi sul caso della Germania. Si tratta dell’unico paese che ha visto aumentare i propri occupati nel corso di questa devastante crisi, al punto da riaprire le immigrazioni di manodopera da Est, malgrado che anche nel paese della Merkel la produzione abbia ultimamente rallentato i propri ritmi di sviluppo, fino a profilare una previsione recessiva per i primi due trimestri del 2012. Sembra quindi che il decremento del Pil non abbia alcun effetto sulla occupazione tedesca. Come la crescita di per sé non porta maggiore occupazione, come ormai ben sappiamo, parrebbe nel caso tedesco vero anche il contrario. Il che è un po’ più stupefacente. Ma i dati parlano chiaro: dal 2007 al 2009, mentre il Pil è diminuito di oltre il  4%, l’occupazione tedesca è addirittura cresciuta di quasi un punto percentuale.
Non si tratta di un miracolo. La ragione sta nel fatto che gli industriali e i sindacati tedeschi hanno puntato sulla riduzione dell’orario di lavoro, che è diminuita del 2% per addetto nello stesso periodo. In questo modo non solo è stata salvaguardata l’occupazione esistente ma si è fatto posto anche a nuove assunzioni. Perché dunque non riprendere il tema della riduzione dell’orario di lavoro anche in Italia? Se c’è una flessibilità di cui c’è bisogno è proprio questa. Una flessibilità non in entrata e tantomeno in uscita nel e dal rapporto di lavoro, ma nel  rapporto di lavoro, quale frutto di una positiva contrattazione.
Questo sì che sarebbe un patto sociale virtuoso, anche se nel nostro paese si impone contemporaneamente anche una crescita delle retribuzioni per migliorare le condizioni di vita e rilanciare la domanda interna. In questo modo si eviterebbe la deresponsabilizzazione delle imprese e la perdita delle professionalità e del saper fare acquisiti da parte dei lavoratori. Si eviterebbe di scaricare costi sulla collettività, lasciando quindi la possibilità di impiegare risorse statali per una riforma in senso universalistico degli ammortizzatori sociali, indispensabile in un paese di piccolissime imprese quale il nostro e soprattutto per introdurre anche in Italia forme di reddito minimo garantito per i giovani inoccupati e per i disoccupati di lunga durata.

Alfonso Gianni - dal sito di SEL Nazionale 

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