giovedì 1 settembre 2011

Michele Serra «Per la scossa, voto Nichi»



Michele Serra odia i litigi nella sinistra. A inizio Anni 90, per dimostrarlo, il giornalista de la Repubblica, scrittore ed ex militante del Partito comunista italiano prese addirittura quattro diverse tessere di partito, dai Radicali ai Verdi passando per gli Antiproibizionisti. Un escamotage per richiamare l'attenzione dei vertici sul problema di un'unità che, da allora, non si sarebbe più trovata.
«BOMBARDARE IL QUARTIER GENERALE». A ribadirlo per l'ennesima volta è stato l'ex segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti. Che dal palco di 'Cortina InConTra' ha affondato la lama nel suo stesso costato: «La sinistra in Italia non esiste più». Certo, è «come l'Araba Fenice», ha aggiunto. E dunque c'è da aspettarsi che prima o poi risorga dalle sue ceneri. Ma prima, ha concluso Bertinotti, «ci vuole una pars destruens», ossia «bombardare il quartier generale».
USCIRE DALLA «RESTAURAZIONE». Serra, raggiunto da Lettera43.it, concorda, seppur a malincuore. A partire dai vertici del Partito democratico, cui non guasterebbe una sana rinfrescata. Ma non ha perso l'occasione di rilanciare, auspicando la formazione di una nuova élite sul modello-Pisapia: rinnovato civismo e partecipazione dal basso, senza disdegnare «alleanze insolite».
E senza vergognarsi di ripartire dal disprezzo per l'ignoranza, di cui gli attuali «padroni» sono portatori poco sani. Tutto, pur di interrompere il «periodo di restaurazione» in cui è piombato il Paese.

DOMANDA. Serra, ha ragione Bertinotti?
RISPOSTA. Se fosse così sarebbe tutto molto più semplice, non esisterebbe più il problema. Invece il problema sta nel fatto che esistono milioni di persone di sinistra. E non riescono a trovare una rappresentanza politica convincente. Per loro, la sinistra esiste. Se sentono ripetere il contrario possono rispondere: «E io allora cosa sono, un refuso della storia?».
D. Tra tutte le critiche mosse alla sinistra, qual è quella che coglie più nel segno?
R. Nella polemica spesso caricaturale contro i radical-chic c'è un elemento di verità sociale. E cioè che i ceti colti nel mondo sono prevalentemente democratici, di sinistra mentre quelli meno colti, paesani e provinciali, sono prevalentemente di destra.
D. Cosa significa?
R. Che se in tutto il mondo a scegliere il governo nazionale fossero solo le grandi città, la destra non governerebbe in nessun Paese. Il dualismo città-campagna è antico come la civiltà occidentale ed è buffo come si riproduca. Parigi è rivoluzionaria, la Vandea reazionaria. Torino è di sinistra e il Piemonte ha votato Roberto Cota, la Lega.
D. Un bel guaio, per la sinistra.
R. La sinistra deve porsi il problema di rappresentare molto meglio anche gli altri. Comodo vincere a Torino, Milano, New York: bisogna emergere nel Tennessee, a Cuneo. Altrimenti, si arriva alla assurda contraddizione di classe alla rovescia, in cui hai il villico fascista che insolentisce il professorino di sinistra. Invece, non deve diventare una colpa neanche avere letto due libri.
D. Lo sta diventando?
R. C'è questa tendenza, molto canagliesca, di ridicolizzare la cultura. È uno dei grandi segni della vittoria politico-culturale della destra negli ultimi 20 anni. Una volta, l'ignoranza era una cosa di cui ci si vergognava. Adesso è da rivendicare e sbattere in faccia ai 'fighetti' che hanno studiato.
D. Sembra che premi.
R. Certo. Poi la famosa frase di Don Milani ai suoi ragazzi, «Il padrone è padrone perché conosce 3 mila parole e tu sei operaio perché ne conosci 500», è stata ribaltata dalla storia. Ormai, il padrone conosce tranquillamente 500 parole.
D. Padroni ignoranti?
R. Sono più ricchi di una volta, ma 10 mila volte più ignoranti. E con un forte disprezzo per la cultura. Quella è una distinzione interessante tra destra e sinistra. E pericolosa, perché la tentazione della sinistra poi è di diventare snob, professorale, col ditino alzato per dare sempre lezioncine e spiegazioncine...
D. Visto che si parla di distinzioni, che cosa identifica la sinistra oggi?
R. Mentre la destra mette l'accento sul successo individuale e sulle differenze tra individui di successo e di insuccesso, la sinistra lega di più perfino la soddisfazione individuale ai processi collettivi. È impossibile stare bene se gli altri stanno così male. La battuta è che chi è di destra va a votare per se stesso, per supportare i propri interessi e chi è di sinistra va a votare tenendo conto anche degli interessi degli altri. Senza voler dire che da una parte stanno i cattivi e dall'altra i buoni.
D. Allora certi politici di sinistra si comportano come elettori di destra.
R. Alcuni sì, certamente. Sul caso di Filippo Penati, per esempio, qualcuno ha detto che ha modernizzato il partito e purtroppo tra modernizzazione e spregiudicatezza il confine non è sempre percepibile.
D. Che significa 'modernizzare'?
R. Io ero abituato a pensare che modernità significasse diminuire l'ingiustizia e le diseguaglianze, non aumentarle. E nemmeno diminuire le speranze di trovare lavoro. O constatare che un manager guadagna non 40 ma 400 volte più di un operaio.
D. Stiamo regredendo?
R. Beh, l'Italia di oggi è più moderna di quella che ha approvato lo statuto dei lavoratori? Mi lascia molto perplesso. Io penso che fosse più moderna l'Italia dei padri costituenti, per esempio, rispetto a questa. Nel senso che era più carica di futuro, apriva una fase che dava più possibilità a tutti.
D. Una replica da destra sarebbe: «Questa sinistra è diventata più conservatrice di noi, dice sempre no».
R. In parte è vero. È una cosa difficilissima da leggere nel breve termine, ma questo è un periodo storico di restaurazione. In cui ci si rimangiano molte conquiste, molti diritti, per tornare a equilibri precedenti. Se si pensa al potere personale di un uomo come Silvio Berlusconi, rispetto all'Italia dei partiti e della partitocrazia, non so se è un passo avanti. Potrebbe essere un clamoroso passo indietro. Emblematica anche la questione femminile, quanto è tornato di moda il maschilismo, il machismo. Fino a 30 anni fa, il pregiudizio era un po' più in forse su questo argomento.
D. Ma quando è iniziata la crisi di rappresentanza della sinistra?
R. Fondamentalmente, con la crisi della fabbrica. Era un universo sociale molto semplificato rispetto ad adesso, quello in cui è cresciuta la mia generazione.
D. In che senso?
R. C'erano la borghesia, i padroni, gli operai, la fabbrica. Era una società molto più semplice, più leggibile e più strutturata, in cui le classi, i loro interessi, le loro culture, erano più evidentemente visibili. Era più facile prendere posizione.
D. E ora, invece?
R. Oggi c'è la famosa società parcellizzata: molto dinamica, con meno barriere. Però è molto complicato trovare una rappresentanza per questo tipo di società. Prendiamo la Rete: c'è una formidabile accelerazione delle parole, delle idee, delle identità individuali. Ma trovare quella che una volta si chiamava classe dirigente, formare una élite, è difficile. Perché significa trovare delle direttrici verso cui avviarsi. Le ideologie semplificavano, a volte fino alla stupidità, ma c'erano dei vantaggi in termini di identità collettiva. Oggi bisogna arrangiarsi, ciascuno per sé.
D. Il Pd uscirà dal caso Penati o ne rimarrà travolto?
R. Non lo so dire. Certamente è più difficile per un partito di sinistra uscire indenne da una tempesta del genere. Ma questo è un sintomo. Perché nessuno si chiede: «Ma il Popolo della libertà (Pdl) uscirà indenne dai casi di Denis Verdini, Marcello Dell'Utri, Marco Milanese, dalla P3...?». È come se si desse per fisiologica la presenza della corruzione o dell'arraffo individuale in un partito di potere di destra. Mi fa molto piacere accorgermi che desta ancora più scandalo e più scompiglio a tutt'oggi scoprire che c'è corruzione anche a sinistra.
D. Bisogna «bombardare il quartier generale» del Pd?
R. Non c'è dubbio che ci sarebbe bisogno di una rinfrescata ai vertici. «Bombardare il quartier generale» in momenti così pesanti è sempre una operazione salutare. Però dopo devi, non è facoltativo, avere una leadership sostitutiva. Che funzioni.
D. Come si fa?
R. Nel caso di Giuliano Pisapia a Milano è quasi accaduto che una specie di nuova élite diffusa, movimentista, giovanile, 'internettara' si sia organizzata e abbia trovato un modo di propaganda politica molto convincente. Sarei felicissimo di sapere che da lì, da questo nuovo civismo e non più dalla fabbrica, sta nascendo una élite alternativa che possa «bombardare il quartier generale e mandare tutti a casa». E poi però fare di meglio. Anche se non ho ancora capito se è al governo di Milano oppure ci sono sempre i soliti, vecchi partiti.
D. Se è difficile a livello locale, figurarsi a quello nazionale. Un possibile leader per la sinistra?
R. Se ci fossero le primarie voterei Nichi Vendola. È quello che quando parla dice le cose che mi interessano di più. Quando incontro un bersaniano intelligente che dice che Pier Luigi Bersani è più pratico penso che abbia buone ragioni per dirlo. Ma mi sembra che nei periodi di confusione ci voglia almeno un quid di radicalità.
D. Perché?
R. Perché rimette ordine, aiuta a capire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Senza durezze ideologiche o fanatismo, ma sarebbe salutare. Vendola lo fa spesso. Per questo lo voterei. E ho visto da qualche sondaggio che buona parte del Pd lo voterebbe. Questo mi fa pensare che ci sia bisogno di alzare il livello.
D. Altre caratteristiche di un futuro leader?
R. Serve un uomo capace di andare oltre le voci dissonanti e stabilire alleanze anche insolite. Pisapia a Milano è stato quello: capace di farsi votare dai centri sociali e dal borghese del centro storico che magari è stufo di sentire Matteo Salvini insolentire gli immigrati. Dimostrando che ormai anche al Nord non ne può più della Lega e della secessione.
D. E poi?
R. Con tutto il rispetto per la politica come arte di amministrare, serve qualcuno capace di alzare un po' lo sguardo. Oppure, francamente, è meglio affidarsi a bravi geometri o ragionieri, onesti e per bene, che sappiano far quadrare i conti della collettività.

Giovedì, 01 Settembre 2011- dal sito www.lettera43.it

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