Sono passati esattamente 10 anni da quel venerdì di luglio quando vivemmo con choc la morte del nostro compagno di viaggio Carlo Giuliani. La sera prima si erano fatte le prove di contatto, la PS aveva avuto accesso allo stadio Carlini per verificare che il nostro equipaggiamento non fosse lesivo. Si, avevano visto i nostri scudi di plexiglass, i nostri caschi protettivi, i nostri cassonetti pieni d’acqua per spengere i lacrimogeni, e pure le tute bianche pronte con le croci rosse dipinte sul retro, che segnalavano gli infermieri di primo soccorso all’interno del corteo dei disobbedienti.
Avevamo una maglietta come giovani comunisti che riportava la frase “Zona Rossa, Entriamo a spinta”. Avevamo facce sorridenti e felici di chi era consapevole di essere là, a Genova, per cambiare il mondo, per un’alternativa possibile e reale ai nostri occhi.
Erano tanti i giornalisti, i fotografi, i registi e gli operatori che con noi erano lì a testimonianza, per preservare la verità. Poco prima della partenza dallo stadio, a tutti fu distribuito un foglietto con i numeri di alcuni avvocati, pronti a darci una mano in caso di necessità.
Eravamo pronti a lottare, a valicare quelle barriere che separavano la città di Genova e noi tutti dai luoghi delle decisioni per il futuro del mondo, ma non eravamo assolutamente pronti alla violenza che dalle 12 in poi ci si scatenò contro.
Il giorno prima, durante la manifestazione dei migranti percepii una strana aria. In prossimità di un cordone di poliziotti mi sentii ferocemente urlare “domani state a casa che vi ammazziamo tutti”.
Non riuscivo a crederci, poliziotti che ci minacciavano?! Incredula provai a parlare con quel funzionario della polizia di Stato ma subito mi fu intimato di rientrare tra le fila del corteo. Era il primo campanello d’allarme, ma come si poteva dargli credito? come si poteva immaginare che il G8 di quell’anno dovesse diventare il test d’inizio della repressione nei confronti del dissenso?
Partimmo per la discesa di via Tolemaide con un’euforia intrisa di paura. Appena giungemmo alla fine di via Tolemaide cominciò l’inferno, a cui nessuno di noi si sottrasse. Ognuno aveva un compito ben specifico: spegnere i lacrimogeni, prestare il primo soccorso ai feriti e portarli in fondo al corteo dove c’erano i nostri medici – per evitare che i feriti finissero direttamente dall’ospedale alla questura, resistere con gli scudi alle cariche per avanzare verso la zona rossa.
Dal momento della prima carica tutti i nostri schemi saltarono, quei foglietti con i numeri degli avvocati diventarono indispensabili e la disperata corsa per sfuggire al rastrellamento per i vicoli di Genova diventò il leit motiv di tutta la giornata, fino all’assemblea della sera allo stadio Carlini, quando apprendemmo che la voce che circolava sulla morte di un nostro compagno era purtroppo reale.
Ora, a dieci anni di distanza ancora un brivido mi percorre la schiena ad ogni rumore di elicottero in volo, ancora la immagini di quella giornata assalgono i miei sogni trasformandoli in incubi, e in questi momenti penso che era proprio questo lo scopo di tanta “violenza gratuita” lasciare il segno, disperdere un movimento che a loro metteva paura, perché eravamo tante e tanti in quei giorni ad arricchire le iniziative organizzate dal e con il Social Forum, e nei nostri occhi si vedeva solo la luce della voglia di cambiamento “senza se e senza ma”. Ed è questa luce che hanno provato a spegnere, con la morte di Carlo, con i pestaggi, gli inseguimenti, gli arresti.
Credo che quella luce sia ora negli occhi di tutti i cittadini che si sono spesi per la vitoria del Si ai referendum, per la vittoria di Pisapia, De Magistris, Zedda e gli altri alle elezioni amministrative. Credo sia parte fondamentale di quelle persone che da Genova in poi non hanno mai smesso di sperare in un mondo migliore possibile.
Ylenia Daniello dal sito www.sinistraecologialiberta.it
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