venerdì 2 luglio 2010
Rifugiati nel porto franco del suo pensiero e della sua moralità
Per nessuno di noi – di noi che amiamo Rina Gagliardi – è facile accettare che sia andata via.
Troppo brusca l’uscita di scena, neppure il tempo per un congedo, e tantissime ancora le cose importanti da scambiare con lei, le promesse e i segreti che intrecciano i fili delicati dell’amicizia. E invece Rina ha fatto l’ultima danza e poi è venuto giù il sipario. Un colpo di vento e lei non c’è più. Un battito d’ali e poi tutto finito. Ahi Rina! Non inciamperemo più nella sua voce elegante, musicale, persino teatrale, sempre alla ricerca di un sillabario più umano, di una sfida più nobile, di una leva culturale capace di sollevare la pietra sepolcrale dell’ipocrisia e dell’oscurantismo.
Non godremo più dei suoi motti di spirito, della sua speciale capacità di mescolare stupore, indignazione, tenerezza, intelligenza. Non potremo più rifugiarci nel porto franco della sua libertà di pensiero, della sua onestà intellettuale, della sua moralità spoglia di supponenza e capace di una straordinaria pietas. Eppure non smetteremo di lasciarci sorprendere da quella sua grazia infantile, da quello stare nella dimensione pubblica senza mai smarrire le ragioni di una militanza che si fa carne e sangue di una intera esistenza.
Eppure continueremo a mettere i nostri occhi nei suoi occhiali, covando sempre il sospetto che la sua miopia fosse solo un allenamento allo “scrutare”: scrutare con pignoleria e grande professionalità i fenomeni sociali e la loro rappresentazione politica, scrutare con le pupille appese al telescopio della grande storia e al microscopio della quotidianità, osservare e annotare e decrittare e analizzare.
Eccolo il giornalismo superbo di Rina Gagliardi: l’esercizio rigoroso e cristallino di un mestiere di scrittura che non ha mai, neanche per un istante, ceduto alle lusinghe del gossip o della cronaca pettegola e contundente. Perché nella sua passione per la sfera del “politico” non c’era ombra di politicismo, non c’era incantamento per il Palazzo e le sue alchimie, non c’era soggezione alcuna nei confronti del potere e dei potenti.
Scrivere per Rina è raccontare, capire, cercare i sentieri del cambiamento, costruire i nessi tra il vertice e la base della piramide sociale, liberare l’intelligenza da qualsivoglia forma di superstizione. Scrivo di Rina che scrive e mi accorgo che i verbi non possono più coniugarsi al presente.
Ma come si fa a parlare di Rina al passato? Questa volta io non so come fare. E’ come quando la paura ti paralizza. Occorre muoversi, ma si resta immobili. E invece bisognerebbe subito fare qualcosa, tuffarsi tra le onde, attraversare questo mare doloroso: anche per cercare una sponda di senso o almeno di consolazione. Forse bisognerebbe darsi il coraggio dei pensieri che volano nel cielo della trascendenza. Oppure occorrerebbe laicamente elaborare una morte che ci spiazza, celebrando il senso luminoso di una vita. No, questa volta non è facile.
Questo strappo così ingiusto lacera una tela di racconti, di passioni condivise, spacca un tempo lungo: e il cronografo dei nostri pensieri non vuole più legarsi alle proprie lancette. Se solo si potesse fermare il ritmo delle cose che si perdono come dentro una oscura entropia, fermare il vortice che trascina lontano chi vorremmo tenere qui con noi, vicino a noi! Se solo ci si potesse ancora stringere a Rina, compagna meravigliosa dei giorni tristi e dei giorni allegri! E ancora scambiare con lei qualche segreto e qualche promessa. Per dirci che la vita è più forte della morte, che la morte non chiude i conti della vita. Per dirle che la porteremo sempre nei nostri cuori, che non la dimenticheremo mai.
Nichi Vendola
pubblicato su Gli Altri
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