domenica 6 dicembre 2009
Medioevo, le prove tecniche del Quarto Stato
Nella rivolta dei Tuchini, in Canavese, i contadini alla battaglia per i dirittidi ALESSANDRO BARBERO - "La Stampa" 6 dic.
Alle porte di Torino, nel Canavese, ebbe luogo la più importante rivolta contadina dell’Italia medievale. Una ribellione che durò cinque anni, dal 1386 al 1391, lasciando una memoria duratura nell’immaginario collettivo della zona, dove la si rievoca ancor oggi in occasione del Carnevale di Ivrea; anche se si tratta di una memoria in gran parte mitizzata, col solito accompagnamento di feudatari malvagi e ius primae noctis. I ribelli canavesani, a cui l’amministrazione sabauda diede il nome di Tuchini in ricordo di un’analoga ribellione esplosa anni prima nella Linguadoca, espulsero i signori dai castelli - peraltro con pochissimo spargimento di sangue: due soli morti, secondo gli atti del processo - e gestirono da soli, per anni, il proprio territorio, difendendosi con le armi da ogni tentativo di soggiogarli; alla fine cedettero alla forza preponderante dei nobili, che erano spalleggiati dal conte di Savoia, ma non senza aver ottenuto importanti concessioni.
La storiografia ottocentesca non capì le ragioni profonde dell’insurrezione dei Tuchini. Ferdinando Gabotto scrisse che la rivolta fu colpa di «accorti sobillatori», capaci «di dar a bere a’ rozzi ed ingenui montanari le solite fole degli arruffapopoli, ricantando i nomi di usurpazione, prepotenza, libidine, da un lato, di giustizia, diritti, libertà, dall’altro». A pagare quei sobillatori sarebbero stati i marchesi di Monferrato, che speravano in quel modo di mettere in difficoltà i loro acerrimi rivali, i Savoia. Per gli storici di fine Ottocento, l’unica vera politica era quella di cui erano protagonisti i principi, e l’idea che anche i contadini fossero capaci di fare politica non veniva in mente a nessuno.
Negli anni 60 e 70 del Novecento, l’egemonia della cultura marxista determinò un risveglio di interesse per le rivolte contadine, trattate, però, da una parte e dall’altra con eccessivo schematismo. Le interpretazioni marxiste presupponevano la coscienza di classe delle masse rurali e interpretavano, di conseguenza, i loro movimenti in chiave di lotta di classe. La storiografia borghese contrappose un’interpretazione altrettanto ideologica, che riduceva quei movimenti a rivolte della miseria o a commozioni millenaristiche; in ogni caso semplici «furori paesani» privi d’una chiara motivazione politica. L’idea che i contadini del tardo Medioevo, quando si ribellavano contro l’ordine costituito, potessero avere in mente degli obiettivi politici ben individuati e perseguiti con lucidità continuava a sembrare poco realistica.
Oggi, però, su quei contadini ne sappiamo decisamente di più (anche se sempre troppo poco). Gli storici del tardo Medioevo e della prima età moderna si sono resi conto che in quella società la politica non la facevano soltanto i sovrani e i governi. Proprio il fatto che il potere fosse polverizzato, gestito in gran parte dai signori locali, faceva sì che i contadini avessero un interlocutore presente sul posto e conosciuto da tutti, il signore appunto, con cui negoziare per difendere i propri interessi, si trattasse d’una riduzione delle imposte o di nuovi diritti che li rendessero più liberi. E questo, come chiunque può capire, significava fare politica. La protagonista di questa politica era la comunità, che era organizzata a imitazione dei comuni urbani e che rappresentava, di fronte ai signori e ai principi, tutti gli abitanti d’un villaggio. Proprio la consapevolezza che i contadini medievali non si muovevano come una massa amorfa e disgregata, riunita solo occasionalmente dalla disperazione o dal fanatismo religioso, ma vivevano tutta la propria esistenza entro l’orizzonte della comunità, consente di interpretare diversamente il loro rapporto con la politica e, occasionalmente, con la violenza.
Riportando al centro della scena la comunità, si capisce come mai i movimenti contadini fossero spesso guidati da notabili locali, notai, ecclesiastici, perfino piccoli nobili, in contrasto con l’enfasi marxista sulla lotta di classe. Ma soprattutto, quello che oggi appare chiaro è che la violenza delle rivolte era una continuazione della politica. Le comunità erano impegnate in un confronto politico serrato, che aveva obiettivi precisi: ottenere per gli abitanti il diritto di fare testamento, per esempio, mentre prima se qualcuno moriva senza figli il signore si prendeva tutta la sua eredità. Quando la tensione saliva, il confronto tra comunità e signore poteva trovare una possibilità di sfogo sul piano giudiziario: i contadini erano capacissimi, e lo fecero anche alla vigilia del Tuchinaggio, di citare i loro signori presso un tribunale superiore, come quello del conte di Savoia, per rivendicare i propri diritti. A questo punto, bastava che la tensione montasse ancora un po’ perché dal linguaggio dei tribunali si trascorresse a quello della violenza. È proprio ciò che accadde nel Canavese, dove i ribelli non erano mossi né dalla fame né dalla disperazione, ma volevano strappare concessioni ai signori - e, nel complesso, seppero muoversi così abilmente che ci riuscirono.
«La rivolta dei Tuchini» è il tema della lezione dello scrittore e romanziere Alessandro Barbero in programma oggi alle 11 al Teatro Carignano di Torino. È il terzo appuntamento del ciclo «Torino e il Piemonte. Gli anni della nostra storia», ideato dall’editore Laterza e organizzata dal Circolo dei Lettori in collaborazione con La Stampa e con il Teatro Stabile di Torino. Ingresso libero fino a esaurimento dei posti.
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