Sviluppo e nuovo regionalismo di Claudio Carnieri
Il dibattito sull’economia umbra che
si è aperto, quasi con una qualche
sorpresa, alla notizia di fonte Eurostat sul Pil per abitante che, nella nostra regione, nel lungo periodo della
crisi 2008-2014, è diminuito dell’8,47%, più del doppio della media nazionale,
facendo così riemergere una dimensione particolarmente critica delle basi
produttive e sociali dell’Umbria contemporanea, si è poi troppo rapidamente
chiuso, con qualche nota consolatoria, in un misto di opacità e reticenza,
collegate ai “segni di ripresa”, che si sono segnalati, deboli, nel corso del
2015.
Torno sul tema nella convinzione che
ci sarebbe bisogno invece di ben altra tensione nella lettura critica della
società regionale, anche oltre le stesse frontiere istituzionali, per
analizzare strategie e comportamenti delle diverse, tante, soggettività sociali
e di tutti quelli apparati che hanno un’influenza determinante sulla qualità
dello sviluppo del nostro territorio. Certo, il Pil per abitante, pur importante per le sue componenti sociali e
demografiche, da solo non basta per capire: sono necessari molti altri dati,
che le classi dirigenti dell’Umbria posseggono da molto tempo. E prima di tutto
proprio il Pil in termini assoluti e
cioè la produzione effettiva di ricchezza,
la cui caduta, nello stesso periodo, in Umbria, è stata molto forte e superiore
di circa un terzo alla media nazionale. L’ultimo dato dell’Istat è quello del 2014 (Italia -0,4%;
Umbria -0,9%). Per tutto il periodo, con l’eccezione del 2010 quando sembrò
riaprirsi una fugace fase positiva, è prevalso invece il segno negativo con
forti cadute, come quella del 2009 (-5,9%, ma già nel 2008 c’era stato un -1,5%), o quella calcolata dall’Istat per
il periodo 2011-2014 (Umbria -6,4%; Italia -5,0%). E assieme al Pil c’è da
leggere le storiche dinamiche di produttività
(in Umbria inferiori di circa il 10% sulla pur bassa produttività nazionale),
così intrecciate con il modello di
specializzazione produttiva della regione.
Da tutta questa sequenza emerge come
e quanto la crisi più lunga dal dopoguerra abbia scoperchiato una gracilità di
fondo dell’economia e della società umbra con la quale è ineludibile fare i
conti, ancor di più per una visione di lungo periodo. Portare perciò il tema in
primo piano nello spazio pubblico ci sembra essenziale, anche per un confronto con
le voci delle forze sociali oltreché delle istituzioni. Anche in Umbria c’è infatti
da recuperare una centralità dei “corpi intermedi”.
Possiamo aggiungere qualche altro
dato sul mercato del lavoro. E’ vero, come si è notato, che gli occupati, a
fine 2015, sono positivamente aumentati a 360.000 dai 351 mila del 2013 e dai
355 mila del 2014 (IV trimestre). Bisogna tuttavia far bene i confronti: i
disoccupati, a fine 2015 sono ancora 42
mila, la percentuale più alta della storia repubblicana, ad eccezione
dell’ultimo trimestre del 2014, quando erano arrivati a 50 mila. Siamo allora
tornati ai livelli pre-crisi? Non ci sembra. Ne siamo ancora lontani. Ricordo
che alla fine del 2008 gli occupati in Umbria erano 380 mila e alla fine del
2007, 383 mila, con una disoccupazione pari a 22 mila (19 mila nel 2007). E non
bisogna mai dimenticare come da tempo molti economisti mettono l’Umbria nelle
aree di “occupazione senza sviluppo”,
con una occupazione che è sempre più abbondante della produzione di ricchezza.
Di nuovo, in questo contesto, c’è la vicenda dei voucher e i dati sono enormi con tutto il peso che essi hanno nel
mondo del lavoro, per i diritti prima di tutto. Dai 181.217 del 2010 siamo
passati in Umbria a 1.091.711 del 2014, con un ulteriore balzo di circa l’80%
nel 2015: ne sono stati venduti 1.971.122.
E’ dunque in tutto questo intreccio
che si radica una domanda essenziale che chiede risposte difficili e anche ricerche
adeguate, lontane da quel certo “laissez-
faire” che da tempo sembra avere una certa prevalenza negli orientamenti e nella
cultura delle classi dirigenti regionali. La questione è: perché la nostra piccola regione marca, nel lungo periodo, una crisi
così netta e forte? Quali sono le contraddizioni che vengono al pettine? Di
questo bisognerebbe parlare, con un più forte “spirito di verità”: in altre
fasi della storia umbra altri protagonisti lo seppero fare, dai democristiani
ai comunisti, dai socialisti ai repubblicani, fino a taluni ceti liberali e
conservatori. Guardando poi ai soggetti dell’economia c’è da tornare, alla luce
di quei dati, a porsi domande sullo “stato dell’arte”, per capire come le tante
componenti imprenditoriali sono passate nella lunga crisi, anche trasformandosi:
dalle multinazionali, alle medie imprese del “quarto capitalismo”, alle reti
delle imprese “resilienti”, come si dice, alle micro-imprese e al lavoro
autonomo, dall’agroindustria ai nuovi lavori terziari. Non ci si illuda che
l’Umbria possa risalire facilmente la china, senza uno “scatto” enorme che veda
protagoniste insieme istituzioni e forze sociali, mondo del lavoro e delle
imprese capaci di affrontare la portata degli snodi critici. La questione
cruciale di una nuova fase di investimenti pubblici e privati ha qui la sua
prima radice.
Se non si ragiona con questo spirito si
finisce per assolutizzare quegli aspetti modesti e parziali di una congiuntura
positiva che, per le sue dimensioni, non autorizza scenari più ampi. Nel 2015
il Pil italiano si è assestato ad un +0,6%. Non ci sono ancora i dati
regionali, ma quel rapporto tra passato e presente, per l’Umbria, è già molto
indicativo. Faccio l’esempio dell’export. Dopo anni nei quali, nel corso della
prima metà del 2000 l’export umbro era salito faticosamente all’1,0% del totale
nazionale, ci sono stati poi anni duri che lo hanno riportato indietro allo
0,9%. Ricordo che nel 2014 l’export umbro, anche per il peso della siderurgia,
è calato del 5,7% a fronte di una crescita nazionale del 2,0%. Nel corso del
2015 poi l’export umbro è tornato a salire più della media nazionale (6,4%
contro il 3,8% dell’Italia), ma la percentuale umbra è sempre ferma allo 0,9%
del totale nazionale, indice di quanto la questione della internazionalizzazione sia uno degli snodi cruciali e più difficili
della realtà regionale, sia per il ruolo complessivo dei grandi gruppi
multinazionali verso i quali si fatica ad impostare una politica organica, mirante
anche all’attrazione di impresa, sia
per il resto del tessuto imprenditoriale regionale.
E allora. Se la questione delle
difficoltà della base produttiva è di così lunga durata, ne deriva con forza
un’altra domanda: che cosa deve cambiare nelle strategie delle politiche
pubbliche e insieme nelle scelte d’impresa per conquistare all’Umbria una
qualità dello sviluppo più avanzato in grado di affrontare le sfide che vengono
dalla globalizzazione? E’ certo importante, ma non basta, sottolineare come
occorra oggi selezionare molto di più che in passato, la finanza pubblica, in
primo luogo quella di derivazione europea, per evitare che il flusso verso il
sistema delle imprese serva, quando è “a pioggia”, nel breve periodo, solo a
sistemare qualche margine di profitto. Ma solo una analisi severa, proposta in
modo esplicito, può aiutare una scelta rigorosa di nuova allocazione delle
risorse.
E questo vale anche per la cultura
delle forze imprenditoriali, alle quali
occorre certo riconoscere l’impegno che c’è stato, in questi anni duri
di crisi, a “fare impresa”. Ma anche qui le sfide sono enormi a cominciare da
quelle relative alle frontiere dell’innovazione e della ricerca. Ancora un
dato: nel 2013 gli investimenti delle imprese umbre sono stati (migliaia di
euro) 50.642, pari allo 0,4 del totale nazionale, una cifra assolutamente
sproporzionata anche alle piccole dimensioni dell’Umbria, un livello che
peraltro da anni non si sposta positivamente in avanti, malgrado le
incentivazioni regionali. Valga un confronto con il Pil regionale di questi
investimenti privati: essi sono in Umbria lo 0,25%, in Abruzzo lo 0,38%, nelle
Marche lo 0,36%, in Toscana lo 0,56%. Se poi si somma l’intervento
dell’Università pari all’1,9% del totale nazionale, l’insieme degli
investimenti in R&S dell’Umbria arrivano allo 0,9% del totale italiano:
troppo poco. Mi chiedo: non c’è qui uno snodo che chiama in discussione scelte
e percorsi della comunità scientifica regionale delle due università che hanno
un ruolo essenziale nel fare avanzare nuovi
driver di sviluppo nelle direzioni ambientali, della chimica verde, nella
stessa metallurgia e in tutti i temi della sostenibilità urbana dello sviluppo.
Ecco. Sono tutti questi processi che
ci danno i segni anche della nuova e forte divaricazione territoriale
dell’Italia contemporanea, sulla quale hanno scritto molti economisti a
cominciare da Aldo Bonomi. Sono dimensioni che bisogna leggere bene, con “spirito
di verità”, per trovare scelte adeguate, anche nel dibattito istituzionale
sulle macro-regioni che viene affrontato con non poca disinvoltura, fino a
qualche bizzarria. Proviamo dunque a mettere insieme per questo i differenti
dati reali delle economie territoriali alle quali prevalentemente ci si
riferisce. Il Pil per abitante
(migliaia di euro) è in Umbria (2014) 23,9 (Abruzzo 23,1, Marche 25,2, Italia
26,5, Toscana 28,9): l’Umbria è più vicina all’Abruzzo che alle Marche per non
parlare dell’enorme distanza dalla Toscana. E nel Pil si esprime la quantità e
la qualità della ricchezza prodotta da un territorio. La prima frontiera
critica dell’Umbria sta proprio qui. Si guardi poi ai redditi da lavoro dipendente per occupato dipendente (in migliaia
di euro). In Umbria sono 32,5 (Molise 32,4, Sicilia 32,0. Marche 33,8; Abruzzo
34,0, Toscana 34,5, Italia 35,6). Anche in questo caso si vedono le distanze
critiche dell’Umbria e non già perché ci troviamo di fronte a contratti di
lavoro differenti, quanto per una diversa collocazione del lavoro all’interno
delle qualifiche che caratterizzano le diverse gerarchie e organizzazioni
aziendali. Ed è questo un dato nel quale si esprimono tante cose che vanno dal
riconoscimento del valore del lavoro nella produzione, alla ricchezza delle
famiglie, ai consumi, alle dinamiche del mercato interno regionale.
Si pensi poi, in questo contesto, ad
altre differenze, a cominciare dalla “questione industriale”, il cui Valore
Aggiunto, nelle sue dimensioni allargate, pesa nelle Marche (2014) per il
24,3%; in Toscana per il 20,9%, in Umbria per il 19,0%.
Le conseguenze di questa geografia territoriale sono molte
proprio in direzione del rapporto tra economia e politica, tra istituzioni e forze
sociali. Sono per questo molto convinto che, dopo la lunga crisi, quando ancora
molto incerti ne sono gli esiti, bisogna provare a riprogettare l’Umbria, ma proprio partendo dall’Umbria medesima, come
insieme territoriale, fuori dai
rischi di un risorgente municipalismo che esprime piuttosto le illusioni di
consorterie locali volte, in una forma di neo-giolittismo, a contrattualizzare,
zona per zona, i flussi di finanza pubblica.
Per pensare invece un’altra fase della
propria storia l’Umbria non può privarsi di quella forza politica e progettuale
che è radicata nella sua autonomia istituzionale, collocata nel cuore della sua
Assemblea Legislativa, senza la quale finirebbe per collocarsi in modo subalterno,
come area sottosviluppata, all’interno delle strategie di altre classi
dirigenti, che hanno non pochi problemi all’interno dei propri territori, in
una fase nella quale stiamo assistendo ad un gigantesco “riaccentramento” delle politiche nazionali,
che riaprono a loro volta, ovunque, i terreni del particolarismo. La scomparsa
dell’Umbria, della sua autonomia istituzionale, proprio in quella direzione di
una più forte qualificata produzione di ricchezza, non produrrebbe nulla di
buono. Ed è qui che un “nuovo regionalismo” dovrebbe trovare il suo centro per
strategie e strumenti: governare per fare
nuovo sviluppo. E a questo fine servirebbe molto di più un confronto, un
coordinamento effettivo di politiche e di scelte con le regioni vicine. Non ne
vedo traccia concreta oltre il reiterarsi degli auspici.
Certo l’Umbria ha un tessuto
economico molto articolato che chiede anche una forte articolazione progettuale,
per la quale tuttavia sarebbe essenziale una scelta strategica molto spesso
elusa: la verifica rigorosa, ex post
dei risultati delle politiche, anche di quelle fatte “a Bando”. Per questo le
classi dirigenti non dovrebbero aver timore della crudezza dei dati, delle
asprezze della ricerca e del dibattito.
Se poi si risale dalle dinamiche
produttive al complesso della qualità sociale della regione si vedono tanti
altri processi che segnano i comportamenti e le scelte di donne e di uomini e
che finiscono per pesare sulle culture, sulle visioni politiche, sulla
democrazia e sulla vita quotidiana delle istituzioni. C’è ormai un’altra Umbria
che, alla fine della crisi, fatica ad assestarsi, con nuovi processi di
gerarchizzazione, con disuguaglianze molto più forti e diffuse del passato, con
una espansione delle aree di sofferenza e di povertà (nel 2014 la povertà
relativa è salita in Umbria all’8,0%, Marche 9,9%, Toscana 5,1%, Emilia Romagna
4,2%) con nuove domande sociali radicate
nella precarietà e nella incertezza diffusa. Non si legge l’Umbria di oggi
senza questa nuova, dura, “questione sociale”. Ne sono investite tutte le
dimensioni familiari, sociali e di gruppo, nelle cadenze della vita individuale
di donne e di uomini, fino alle più delicate questioni della procreazione e
della natalità. E dunque: non solo governare per fare sviluppo, ma per produrre
qualità sociale, per fare comunità,
per contrastare tutti quei processi che pesano sempre più sulle condizioni di
vita di parti grandi della popolazione a cominciare dalle nuove generazioni.
E’ qui che la politica deve provare effettivamente
a rinnovarsi in una dimensione di progetto, di costruzione di libertà e di
comunità, anche nel confronto aspro tra
progetti differenti e trasparenti, contrastando con durezza un clima oggi
prevalente nel quale i conflitti principali sembrano essere quelli tra pezzi ed apparati di
partiti-Stato, più o meno radicati nella storia politica della regione.
Anche per questo riportare al centro
lo snodo “lavoro-sviluppo-qualità sociale” sul quale provare a riprogettare
un’altra fase dell’identità dell’Umbria è essenziale: questo vorrei chiamare
“nuovo regionalismo”, anche con radicali novità verso il passato, ma con
l’orgoglio di una regione che attraverso una originale e forte progettualità
politica e culturale ha saputo in passato, nel corso del novecento, costruire una
personalità unitaria che non le rinveniva spontaneamente dalla sua storia più
antica, segnata città per città, e ancor meno dalla gracilità della sua
economia, ma che, proprio con questa forza soggettiva, è entrata con una identità unitaria, nella storia
nazionale ed europea.
I rischi di un declino sono a ben
vedere proprio qui: se quella soggettività culturale e civile venisse
progressivamente meno, finirebbe per essere sostituita da localismi e
trasformismi, con tutti i contorcimenti conseguenti della politica. E non sono
pochi che premono in questa direzione, anche utilizzando il dibattito sulle
macroregioni.
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