martedì 18 maggio 2010
Papigno sedotto e abbandonato
Pubblichiamo ampi stralci dell'articolo di Walter Patalocco su Papigno ("il messaggero" 5 maggio)
Sono parecchi, adesso, i tetti rossi di Papigno. Ma a metà degli anni Settanta, quando la fabbrica del carburo chiuse i battenti, il paese era tutto grigio. I tetti, i muretti lungo la strada, persino le facciate delle case su cui si posava, ricadendo dall’alto, uno strato di polvere che rendeva il paesaggio surreale. Erano i fumi che le ciminiere della fabbrica nata sulla sponda del Nera avevano scaricato per decenni nel cielo, proprio all’altezza delle case abbarbicate sullo sperone di roccia che svetta dirimpetto.
Erano i tempi dell’industrializzazione. Quando non si andava per il sottile col rispetto della salute della gente. Figuriamoci con quello per le bellezze della natura. Una delle gole fino ad allora più ammirate della Valnerina, all’inizio del ventesimno secolo, fu sconvolta dall’industrializzazione: la parete rocciosa mangiata dalle ruspe, grandi paratoie sul Nera, la centrale di Galleto e quella di
Pennarossa, i grossi tubi delle condotte forzate, la sottostazione di Villavalle.
E le ceneri dei forni che venivano ammassate lì, sulla spianata davanti alla fabbrica. Anni dopo, sopra a quella discarica delle ceneri dei forni, ci hanno fatto un campo di calcio. «Era il campo della Robur, quando qui a Papigno si visse una stagione di soddisfazioni almeno nel calcio», ricorda Roberto. Roberto, adesso, ha una settantina d’anni, tre figli, quattro nipoti. «Ero io l’allenatore della
Robur e giocavamo lì. Più di recente ci giocavano quelli del campionato Arci. Mo’ addio campo».
L’hanno dismesso quando si sono accorti che il terrapieno era fatto di sostanze inquinanti. Tutta l’area retrostante il vecchio campo di calcio è stata anch’essa interdetta: recintata. Bisogna adesso pensare alla bonifica. C’è un piano. Si aspetta venga messo in atto. «Anche gli orti ci hanno levato. Vabbè che quella terra è del Comune, ma erano anni che ci lavoravamo. Pensa... uno lo faceva mi’ padre», ricorda Roberto. Già, gli orti. Una delle ripercussioni dell’industrializzazione è stata proprio quella di sconquassare quella che era una delle zone coltivate di maggior pregio: frutteti. Le pesche gialle di Papigno che ora hanno un capitolo
tutto per loro dentro l’archeologia arborea. Non se ne trovano più. In Italia, almeno. Perché adesso quel seme è stato portato in California e laggiù sembra che se ne producano parecchie di quelle pesche giallone che i papignesi difesero a spada tratta, ricorrendo anche a quintali di carte bollate.
Ma alla fine nulla poterono contro la modernità che avanzava e i soldi della società della Carburo di Calcio e della Terni.
Scomparve così una specie entrata, tra il Settecento e l’Ottocento, in una specie di mitologia vegetale alimentata da turisti e studiosi nordeuropei che sceglievano la zona di Papigno quale tappa fissa dei loro viaggi in Italia. Pesche che pesano più di mezzo chilo l’una, annotava nel taccuino di viaggio (una “bibbia” turistica dell’epoca) lo scrittore tedesco Johann Jacob Volkmann, alla metà del Settecento.
E si dice che all’inizio dell’Ottocento casse di pesche partissero da Papigno per la corte inglese: la regina Carolina Amelia sembra ne fosse diventata ghiotta dopo averle assaggiate proprio durante un breve soggiorno a Papigno. “Che persicu che cessimo - scrive il poeta dialettale Calvino Grifoni - era bonu e squisitu /anche lu re magnava perché era sapuritu”.
Tutto finito nel dimenticatoio. Papigno oggi ha circa 500 abitanti (erano più di duemila alla fine del XIX secolo, quando era famoso solo per la sua bellezza, i suoi ortaggi e le sue pesche), è una frazione di Terni dal 1927, anno in cui, con la creazione della Provincia, il Comune venne soppresso. Un dormitorio per chi lavora a Terni. «Qui di giorno vedi in giro solo noi pensionati - racconta Roberto - Ecco ci mettiamo qui, su questa specie di terrazza e ragioniamo o questioniamo di calcio, di politica, di caccia e pesca...».
La terrazza è una specie di belvedere semicircolare che sta sulla piazza intitolata a Giovanni Di Giuli, un partigiano ucciso dai tedeschi a Rivodutri. Per chiamarla piazza ci vuole un bello sforzo di volontà: praticamente è un incrocio tra la strada che dalla Valnerina attraversa il paese per raggiungere Marmore e Piediluco, e tra quella che esce dal “castello”, la parte più vecchia di Papigno. Ma è “la” piazza: lì, su uno dei maschi della rocca è la lapide dei caduti e quella di chi si
sacrificò per la liberazione dal nazifascismo.
Fu terra “rossa”, Papigno. Che non lesinò il proprio contributo alla guerra partigiana. D’altra parte era un centro abitato da operai negli anni Quaranta del Novecento. Tutti dalla fabbrica ricevevano non solo veleno da respirare, ma anche un posto di lavoro. «Io ho lavorato lì, in quei capannoni fino a quando non hanno chiuso.Poi a Nera Montoro e infine all’acciaieria», racconta Roberto. Quei capannoni... «Robba monumentale... c’hanno speso un sacco di miliardi per rimetterne a posto alcuni. Per farci il cinema.
Ed in effetti quando ci giravano i film qualcosa qui si è visto. C’era movimento, qualcuno affittava le case... Adesso è un deserto. Me sa’ che s’è ripreso tutto il Comune...», dice uno dei quattro cinque pensionati seduti sul parapetto della terrazza. «Ma no - gli replicano - ce l’hanno quilli de Cinecittà!». «Ah, quilli de Roma...».
“Quilli de Roma” che sembrava chissà cosa dovessero farne di quegli studios che hanno trovato una certa vitalità solo con Roberto Benigni. Ma Benigni dopo averci girato La vita è bella e Pinocchio ha ceduto ogni cosa. E da allora che lì ci sia Cinecittà è testimoniato solo da una bella targa che sta sull’ingresso.
La vitalità maggiore, a Papigno, è quella delle domeniche di primavera e d’estate, quando arrivano i turisti. Turisti di passaggio, che a Papigno salgono dalla strada che porta alla Cascata delle Marmore per comprare panini, salsicce, prosciutto e l’immancabile porchetta. Un paio di negozi hanno sempre la fila nei giorni festivi, fino all’ora di pranzo. Poi riprende lo scorrere quotidiano della vita: nel silenzio quasi assoluto rotto soltanto dal rombo di qualche motocicletta che passa: dentro Papigno rombavano cinquant’anni fa le moto da corsa del Circuito dell’Acciaio; il percorso è quello di allora e c’è chi non resiste alla voglia di fare in motocicletta quelle tre o quattro curve. Una moto che passa rombando o la navetta che porta i turisti dal belvedere inferiore della cascata a quello superiore.
Ma la domenica dura un giorno. Gli altri sei scorrono lenti come il fiume Nera che, sotto il ponte di Papigno, ridiventa calmo e tranquillo dopo le rapide susseguenti alla cascata, quelle che attirano (di domenica) i tanti appassionati di rafting o canoa canadese. Ci sono le paratoie a calmare il fiume.
Un altro segno dell’invadenza dell’industrialismo.
E i giovani? Che fanno i giovani di Papigno? «Qui? Niente. D’estate si radunano, si siedono sul parapetto della terrazza e chiacchierano. Poi pigliano la macchina e se ne vanno verso Terni. Adesso vanno e vengono come gli pare _ racconta Roberto _ Mica come quando eravamo giovani noi. Se volevi anda’ a Terni dovevi fartela a piedi almeno fino al ponte dove stava la fermata del tram...»
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